martedì 9 settembre 2008

Il casco ucraino Nazionale di Kiev








L'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) più comunemente nota come Unione Sovietica, era uno stato federale comunista dell'Eurasia nordorientale. Fu fondata il 30 dicembre del 1922 sulle ceneri del vecchio Impero degli Zar e si sciolse ufficialmente il 26 dicembre 1991, sotto le pressioni libertarie iniziate con l’era della Glasnost di Mikhail Gorbachev, l’ultimo dei Segretari Generali alla testa del PCUS, unico partito allora esistente nel Paese. Copriva l'area delle 15 repubbliche che la costituivano, per una superficie totale di 22.402.000 chilometri quadrati, un sesto delle terre emerse del pianeta. Esso si estendeva su ben 10 fusi orari, con oltre 100 distinte etnie nazionali che vivevano all'interno dei suoi confini. La popolazione totale venne stimata in oltre 290 milioni di persone nel 1991: l'Unione Sovietica era talmente estesa che anche dopo che tutte le sue repubbliche ottennero l'indipendenza, la Russia rimase la più grande nazione per superficie.

Uno dei fatti degli ultimi anni che maggiormente mi hanno impressionato per la fortissima carica emozionale risale al 26 aprile del 1986, quando nelle prime ore del mattino il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl, nel territorio dell’attuale Ucraina, a seguito di un esperimento fallito e sfuggito al controllo esplose, proiettando nell’atmosfera tonnellate di polveri radioattive. Appena prima dell’una e venticinque di notte, con le fiamme che sprigionavano alte decine di metri nel locale del reattore, l’allarme suonò alla caserma interna dei pompieri numero 2 della centrale di Chernobyl: nella stanza di controllo c’era una pulsantiera luminosa con centinaia di spie collegate ai rivelatori di fiamma, uno per ogni stanza del complesso; erano accese tutte. Quella notte di guardia c’era Anatoli Zakharov, pompiere veterano dislocato a Chernobyl dal 1980: tra i primi a partire, appena sceso dal camion accanto all’edificio in fiamme non ci mise molto a capire da dove provenissero i pezzi di grafite incandescente conficcati nell’asfalto fuso del piazzale, portati dall’esplosione del reattore; disse: “mi ricordo che scherzavo con gli altri: ci deve essere una quantità incredibile di radiazioni, qui. Siamo fortunati se domattina siamo ancora vivi…” Lui lo è ancora mentre 16 compagni su 28 degli equipaggi di vigili interni della centrale, i primi ad intervenire, sono morti nei giorni immediatamente successivi all’incidente. I detriti incandescenti del reattore avevano innescato l’incendio della guaina bituminosa di copertura dei tetti degli edifici adiacenti, rischiando di fare propagare l’incendio al locale turbine o, peggio ancora, al vicino reattore numero 3; così mentre Zakharov rimase a presidiare il camion fermo sul piazzale il tenente Pravik prese con sé gli altri vigili della squadra e, appoggiata una scala, salì sul tetto per spegnere il fuoco della copertura. Fu l’ultima volta che Zakharov vide i suoi colleghi vivi; erano privi di abbigliamento protettivo o dosimetri: i detriti radioattivi si erano fusi con il bitume incendiato e, quando il fuoco venne spento cominciarono a spostare e togliere a mani nude i pezzi di copertura per poter procedere verso il cuore dell’incendio, supportati dai rinforzi arrivati dalla vicina città di Pripyat. Pravik e i suoi uomini riuscirono a portare le condotte d’acqua fino all'orlo del reattore in fiamme, in una ultima, eroica e purtroppo inutile azione di coraggio: la grafite delle barre di controllo esplose bruciava a oltre 2000 gradi, e continuò a farlo per molti mesi, indifferente a tutta l’acqua che le veniva buttata addosso. I pompieri di Chernobyl vennero esposti ad una dose di radiazioni letali superiore perfino alle vittime di Hiroshima, dove si produssero raggi gamma solo nell’istante della detonazione e a 2500 piedi di altezza. I vigili in azione sul tetto del reattore rimasero in loco per più di un’ora, esposti a raggi gamma e neutroni emessi dall’uranio e dalla grafite radioattivi in fiamme, a dosi di 20.000 roentgen/ora (la dose letale è di 400): dopo 48 secondi di esposizione la loro morte era sicura. Vennero rilevati dai colleghi e portati, con febbre e vomito, in ambulanza all’ospedale locale e da qui trasferiti a Mosca all’ospedale numero 6, specializzato nel trattamento delle radiazioni. Qui morirono dopo due settimane, vittime di esposizioni talmente intense da far diventare blu gli occhi castani del tenente Vladimir Pravik; il pompiere Viktor Titenok subì ustioni interne così severe da presentare ulcerazioni al muscolo cardiaco; tutti vennero sepolti in sarcofagi sigillati in piombo. Nelle prime ore del 26 aprile 1986, 37 squadre di vigili del fuoco – 186 pompieri e 81 camion – giunsero a Chernobyl dall’intera regione di Kiev; alle 6:35 avevano preso il controllo degli incendi visibili attorno al reattore numero 4, ed anche se il cratere continuava a bruciare il capo dei pompieri di Kiev riferì che l’emergenza era passata; il reattore numero 4 era andato; al suo posto un vulcano di uranio fuso e grafite in fiamme; un incendio impossibile da spegnere. Ancora una volta i pompieri erano andati a sacrificare le loro vite per salvare quelle di altre persone: credo che in quell’occasione abbiano, senza retorica, salvato il mondo.

Il casco in collezione è quello in uso nel territorio dell’URSS negli anni dall’80 ad oggi, del tipo indossato anche dai vigili del fuoco ucraini che intervennero quella notte tragica; alcune Repubbliche ne sono ancora equipaggiate. Ha sostituito il casco precedente in metallo con medaglione frontale; questo è in PVC bianco, di derivazione chiaramente militare, con visiera reclinabile a bolla munita di fori di aerazione e comunicazione (vedi post sul casco della DDR), interno in similpelle confortevole ed ottimo sottogola in cuoio, paranuca compatto sempre in similpelle ed il numero 34 dipinto artigianalmente sul lato, a indicazione dell’equipaggio a cui apparteneva il proprietario. Presenta segni evidenti del passato combattivo, con vistose macchie di idrocarburi fusi sulla calotta, che mi guardo bene dall’eliminare; vista la provenienza per sicurezza è stato sottoposto anche a prove dosimetriche che hanno dato, per fortuna, esito negativo…
La terz'ultima foto in basso ritrae il monumento edificato in onore dei liquidatori, le centinaia di migliaia di persone che nei mesi successivi al disastro hanno edificato il "sarcofago" di cemento, acciaio e piombo che ha avvolto precariamente il reattore distrutto, e che in tempi recenti è stato consolidato a seguito di pericolosi cedimenti. Sulla destra viene reso onore ai vigili del fuoco che per primi hanno affrontato l'emergenza, che indossano il casco qui descritto. Le ultime due fotografie ritraggono due dei membri delle eroiche squadre di soccorso, il tenente Pravik ed il vigile Titenok, di cui ho parlato qui sopra insieme ai loro compagni. Onore a questi colleghi che si sono immolati per salvare tutti noi.

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